Il tocco di vino.
Fimminiedda (femminuccia): se ti addentravi nei vicoli della Vucciria o di Ballarò, fra i quartieri popolari di Palermo – ed eri capellone – negli anni Settanta, ma anche negli Ottanta, immancabilmente ti apostrofavano con un “fimminiedda!“.
Potevi impettare, affrontarli di petto, o provare una silenziosa ritirata; nell’uno e nell’altro caso, rischiavi le botte.
Erano anni in cui tatuaggi, capelli lunghi e orecchino (rigorosamente tondo e su un solo lobo) non erano di moda comune, popolare, anzi rappresentavano il ribellismo e facevano arrabbiare, prima che chiunque altro, i nostri lumpen; gli stessi che oggi espongono braccia, colli o caviglie affrescate e piercing a orecchie e pareti nasali.
Io, quella volta, con quei ragazzoni irridenti non litigai; invece, li sfidai al Tocco.
Il Tocco non è un’ora dopo mezzogiorno ma un complicato gioco, spesso crudele, cattivo, che si fa in gruppo, in una taverna e con tanto vino.
È il Tocco di vino. La variante meno storica va a birra.
C’è un Sutta e c’è un Patruni, determinati da una conta pilotata, il resto è puopulu, popolo; a comandare sul serio è il Sotto, chi sta in ombra, come nella vita che a reggere i fili e le fila non è mai chi maggiormente sta in vetrina.
Dunque, a esporsi è il Padrone e questo propone soltanto chi e quando e quanto dovrebbe bere, bicchiere per bicchiere.
Sorso per sorso, se è il caso.
Può accadere che la compagnia si schieri, confederata governata dal Sutta, contro uno o più partecipanti al “gioco” fra quelli del popolo e, tutti insieme – per esercizio di potere che ha radici in tradizioni più o meno buie, quando mafia si scriveva con due effe – possono farti ubriacare fino all’umiliazione.
O lasciarti a becco asciutto; cosa che è altrettanto mortificante.
Durante il Tocco, devi saper riconoscere i codici, il loro lessico, percepirne l’aroma. Ti devi saper destreggiare fra seriose o ridanciane ritualità tribali, tra la scelta di parole tue e locuzioni comuni, talvolta poetiche quando non poeticamente feroci.
‘Stu vino è acqua ‘i vientu e m’u vivu a tiempu a tiempu (questo vino è acqua di vento e lo berrò lentamente)
– O vivi o ‘mmiti (o bevi oppure inviti; a bere, naturalmente).
Bere, in siciliano, si dice viviri, come campare: è lo stesso verbo con la medesima coniugazione.
Come dire Cu vivi, vivi!. Chi beve, vive. Oppure, chi vive beve? E chi campa in salute schiocca la lingua.
(…)
Io, quella volta andai alla grande; me la cavai a meraviglia. Quelli erano ragazzi di vita e quella era la Vucciria.
Erano giovanotti ‘ntisi: sentiti. Cioè ogni loro parola, nel rione, non finiva inascoltata.
(…)
Dopo quel Tocco di vino, con quell’ambrato ponderoso che ci ostinavamo a chiamar bianco, durante il quale bevvi né troppo né troppo poco e mi impegnai in alcune battute di spirito che fecero ridere tutti, e di cuore…, da quella volta, potei sempre tornare serenamente nel quartiere ingentilito da Guttuso poiché forse ero stato simpatico.
Ma, secondo me, perché il vino era in pietra: sincero, non pastorizzato, difficilmente digeribile.
Tratto da “Vite in pericolo” di Pippo Montedoro – Edizioni Qanat
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