Ci lascia Gigi Petyx. Il suo ricordo nelle affettuose parole di Daniele Bilitteri, dal suo Meteobilli.
Era nato al Capo e già lo sapevano coccio di tacca perché era rosso di pelo. E pure figlio di barone. Facile dirgli “Barone Rosso”.
E forse per questo dovette subire un singolare razzismo del pigmento, quando era bersaglio degli altri ragazzini, neri di capelli come un coppo di fumo, che gli cantavano “russu malignu, acchiana supra u lignu, u lingnu si rumpiu e u russu muriu”.
U russu muriu stamattina a quasi 84 anni da quel 9 luglio del 1938 e nessun legno si è rotto sotto di lui quando c’era da tornare al giornale con le fotografie. Perché che notizia è se non ci sono le foto? E’ più giusto dire che spesso una foto è meglio di un articolo.
Pesava dieci chili in più quando si portava appresso il suo borsone per la Rolley, i rullini 6×6, la batteria per il flash, la “padella” con le lampadine, prima dell’avvento dell’elettronica.
Le ha viste tutte Gigi il rosso, ha fotografato tutto il fotografabile e, con occhio palermitano, ha testimoniato il bello e il brutto, l’orrido e il sensuale, morti ammazzati e miss, bambini bellissimi e poltiglie umane, gioie di tifosi e lutti pieni di prefiche salmodiani, i disastri della natura e quelli dell’umanità.
Nato in tempo per vedere con i suoi occhi che cosa fosse la guerra, era piedi piedi, come si conviene a un “saittuni” per quanto blasonato, quando nel maggio del 1943 un bombardamento alleato distrusse mezzo centro storico.
La gente scappava e chi aveva parenti, sfollava “alla Piana” oppure a San Martino. Oppure a Monreale dove tutti sapevano che viveva Charles Poletti, spia americana, che poi diventò governatore siciliano per conto degli occupanti.
E a Monreale le fortezze volanti non arrivavano.
Gigi non scappava ma guardava e condivideva conoscenze che gli sarebbero risultate preziose quando si trattava di entrare in una casa dove si piangevano tragedie.
Siti, giornali, servizi televisivi sono già pieni del racconto delle sue imprese, degli scatti da grande fotoreporter, dei premi, del libro “Palermo Petyx” che gli hanno dedicato Laura Grimaldi e Claudia Mirto.
Io ci ho lavorato a lungo.
Ne abbiamo combinate tante insieme quando io ero a L’Ora e lui nella squadra di Scafidi. Ricordo tante cose e non c’è tempo per metterle in fila perché noi cronisti abbiamo sempre premura di arrivare al punto per non allungare la frase che poi il lettore si perde. Per lui era diverso perché sapeva aspettare il momento.
Ricordo che un giorno al Capo ammazzarono uno dei fratelli Silvestri, fior di malavitosi in attesa di reclutamento mafioso. Il padre faceva il carnezziere e lì andarono i killer per ammazzare il figlio Pino.
Pino Sivestri, inteso “u Vidal”. Quando arrivarono quelli della medicina legale con una cassa di abete grezzo, il vecchio padre la distrusse a calci fin quando non arrivò un “cofano” di modello “Kennedy” che era roba di ricchi.
Il 25 ottobre del 1973 Palermo combattè contro un’alluvione. E perse. Il Grecale ebbe ragione della diga Antemurale, quella dove i ragazzini d’estate andavano a fare i tuffi, e distrusse il porto.
Io ero lì col mio collega-fratello Ciccio La Licata e c’era pure Gigi con la sua improbabile giacca a scacchi e camicia e cravatta, mentre Palermo aspettava l’Arca di Noè.
Quel giorno una lamiera ondulata cercò di decapitarci ma, sino a quando si cuntano, è niente. E noi la raccontammo. E Gigi la fotografò.
Il lavoro coi fotoreporter era bellissimo: partivamo per occuparci di una tragedia e, durante il tragitto, ce ne raccontavamo infinite altre, ogni tanto accusandoci di contare minchiate come un marinaio stolito che racconta la tempesta perfetta.
“mi ricordo una volta, eramo io, Buscetta e…” Ma quello era vero. E così la quasi totalità delle cose che Gigi aveva infilato nella sua Rolley dentro la quale, all’obiettivo, aveva aggiunto il suo occhio infallibile.
Da buon palermitano, a un certo punto, aveva sceldo quello che per lui era un posto sicuro. Così aveva smesso di fare il reporter e era stato assunto in pianta stabile come poligrafico al reparto fotografia del L’Ora.
Faceva le pellicole delle pagine che diventavano flani per la rotativa offeset. Ma, fuori dall’orario di lavoro, era sempre in giro a guardare e a fotografare.
Insomma, non smise mai. Non più Rolley ma Nikon, non più flash ingombranti, non più pellicole 6×6 ma 35 millimetri, grandangolo e “teletto”.
Una mina vagante per questa città alla quale stava attaccato come una zecca innamorata, nutrendosi, è il caso di dire, del suo sangue ma sentendola come una culla che non c’era motivo di abbandonare.
Take a picture red Gigì.