Il carcere dei Penitenziati dello Steri

Così scrivevano i “penitenziati”: i condannati a morte. Lo facevano con ogni strumento possibile, sui muri delle loro celle presso il carcere dello Steri.

Tanti anni fa, durante dei normali lavori di restauro si è scoperto che, dietro all’intonaco di alcuni ambienti all’interno dell’antico Steri, si celavano degli straordinari graffiti disegnati sullo strato di calce che ricopriva le vecchie mura, proprio appena sotto l’intonaco più recente.

Ma questa non era certo una novità. Infatti, di analoghi rinvenimenti presso lo Steri se ne occupò anche il Pitrè, già nel 1907, descrivendoli così nei suoi appunti:

“… Linee sovrapposte a linee, disegni a disegni davano l’idea di una gara di sfaccendati ed erano sfoghi di sofferenza”.

Grazie agli studi ed alle analisi eseguite anche negli anni successivi, si potè risalire con grande precisione all’epoca, agli autori degli stessi e anche ai mezzi usati per realizzarli. Ma partiamo come al solito da lontano, per fare un breve sunto su cos’era il palazzo detto Steri.

La storia

Il complesso di piazza Marina, detto “Steri”, oggi sede del Rettorato di Palermo, fu completato nel 1307 per volere di Manfredi I di Chiaramonte. Egli era un esponente di spicco della ricca e potentissima nobile famiglia siciliana, che dello Steri ne fece la sua prestigiosa dimora.

Nei secoli successivi il palazzo divenne sede della Santa Inquisizione. Questa era fortemente voluta dai dominatori spagnoli, ma in realtà già anticipata in Sicilia nel 1224 dall’imperatore Federico Secondo, e allora rivolta contro eretici e musulmani.

Tornando a far cenno sugli spagnoli in Sicilia, va detto che imposero il loro dominio dal 1516 con Carlo V d’Asburgo al 1713 con Filippo V. Sotto la loro presenza, alla fine del ‘500, giunsero anche l’inquisizione ed il suo tribunale, molto desiderato dalla santa sede.

L’inquisizione

E così, a differenza di Napoli, che rifiutò gli ordini spagnoli, mettendo in atto numerose rivolte popolari, nella nostra terra l’inquisizione attecchì. Gestita direttamente da inquisitori e boia mandati dalla Spagna ma, si dice, anche da qualche boia locale.

Per questa ragione, nel 1603, l’architetto spagnolo Diego Sanches, venne incaricato dalla Santa Inquisizione dell’ampliamento del Palazzo Chiaromonte, comunemente chiamato “Steri“. Il Sanches vi realizzò una nuova ala, allo scopo di ospitarvi le prigioni. Mentre l’edificio esistente era già sede del Sant’Uffizio in Sicilia. In pratica, quello fu il primo esempio di edilizia carceraria realizzata a Palermo, destinata esclusivamente a tale scopo. Escludendo quindi La Vicarìa che nacque come fòndaco della dogana nel 1578, poi convertita nel 1593 a sede dei tribunali e, infine tristemente trasformata nella sinistra prigione.

Il carcere

Allo Steri, edificio che celava antichi misteri, venne quindi ospitato il cosiddetto “carcere dei penitenziati”. Un luogo dove veniva rinchiuso chi era in attesa di giudizio (nei fatti, praticamente, già condannati a morte pur non essendo stati ancora processati).

Si trattava di gente a cui, se andava bene, sarebbe morta comunque dentro la cella, senza dover sopportare il supplizio del patibolo, la forca, o il rogo.

Queste persone, non sempre ladri o malfattori, potevano semplicemente essere degli studiosi, letterati o artisti, contrari alle leggi come alle comuni credenze spagnole. Ma anche stranieri, marinai, bestemmiatori, soggetti affetti da turbe psichiche, ne erano tipicamente ospiti.

A volte si trattava di avversari di signorotti e nobili di turno, la cui sola esistenza dava a questi ultimi dei fastidi (leggi contesa di territori o di amanti). Chi tra loro poteva, esercitava la propria influenza, e con un miserabile pretesto, faceva finire in prigione l’avversario. Questo veniva prontamente condannato, poi giustiziato o lasciato morire di stenti all’interno di una delle celle dello Steri.

A questo punto, è facile immaginare che venire tacciati di eresia o di stregoneria, e condannati a morte, era proprio un attimo. Infatti, erano proprio questi i pretesti più comuni, per i quali si finiva sulla forca.

Le esecuzioni capitali in piazza

Insomma era proprio un bel periodo, quello che vedeva anche le famiglie dei condannati, depredate di tutti i loro averi. Vere confische di terreni, case e denari, che sarebbero ufficialmente serviti per pagare le spese del “processo-farsa” e della esecuzione capitale del reo.

Ma era anche il momento delle pubbliche esecuzioni in piazza, – affollatissime – e abbastanza frequenti, come oggi potrebbe esserlo una partita di calcio allo stadio. Tanto da diventare uno spettacolo atteso dal popolo, di settimana in settimana, quando addirittura di giorno in giorno.

E questo aspetto, visto con gli occhi di oggi, fa davvero specie. Ma, va detto, che alcuni nostri concittadini di allora, in mancanza di svaghi come cinema e TV, erano soliti chiedersi: “che si fa stasera? Ma sai, c’è in programma un’impiccagione a piazza Marina alle 18 e poi, alle 20, in prima serata, è prevista una bella decapitazione ai Quattro Canti. Perfetto, sbrighiamoci o faremo tardi...”. 😲

I graffiti

Chiarito cosa fosse lo Steri in quel periodo, chi vi tenevano dentro, e per quali ragioni… vi ho già svelato che gli autori di quei graffiti, oggi ritrovati sui muri, erano proprio loro: i condannati a morte.

I penitenziati: persone non sempre rassegnate all’inevitabile destino riservatogli, che disegnavano sui muri delle loro celle semplici frasi, preghiere, a volte imprecazioni.

Ma disegnavano anche scene di navi e marinai, immagini della loro amata, piuttosto che crocifissi, effigi sacre o passi della Bibbia.

Lo facevano usando di tutto, graffiando le pareti con le unghia o con i denti che perdevano. Coloravano i loro disegni con la polvere rossa, ricavata dai mattoni di terracotta del pavimento, impastata con la saliva, piuttosto che con il sangue, l’urina o, lo sperma.

“Càvuru e friddu sentu ca, mi piglia la terzuru, tremunu li vudella, lu cori e l’alma s’assuttiglia”.

(Sento caldo e freddo, ho la febbre terzana, mi tremano le budella, il cuore e l’anima si assottigliano).

E’ quanto ha inciso su una parete una povera donna, prigioniera tra i penitenziati, affetta da malaria e condannata al rogo per atti ritenuti di stregoneria.

Tutto questo è venuto fuori da quelle mura… più che flebili speranze, gesti ed urla disperate di dolore!

L’aneddoto

Voglio raccontarvi un piccolo aneddoto, tratto dalle cronache del tempo. Un episodio molto particolare, che ci ricorda di quell’ironia della sorte che a volte non perdona.

9 Luglio 1545: nasce il primogenito del principe Filippo II di Spagna (figlio di Carlo V), e della moglie Maria Emanuela d’Aviz, che muore appena diciottenne dopo il parto. Trascurata dalla duchessa d’Alba e dalle altre donne presenti a corte, che preferirono abbandonare la partoriente per andare ad assistere proprio ad uno spettacolo dell’Inquisizione, tanto voluta dal principe Filippo.

Gli addetti alla servitù, anzichè chiamare il medico, tentarono di alleviare i dolori della donna facendole bere del succo di limone. Ovviamente ciò non servì a nulla, e poco dopo Maria Emanuela morì, per effetto di alcune complicanze sorte durante il parto.

In realtà, Filippo non venne particolarmente turbato dell’infausto destino della giovane moglie, e continuò a vivere la sua vita imperterrito. Ma ebbe tantissimi problemi con il loro figlio, che aveva un carattere violento e irascibile.

Dove si trova?


Loading